Inno Nazionale


 

 

 

 

Marcia Reale

 

 

La Marcia Reale d'Ordinanza, preceduta dalla Fanfara Reale, è stata l'inno del Regno di Sardegna prima e del Regno d'Italia poi, rappresentando così l'inno nazionale italiano fino all'avvento della Repubblica[1]. Fu composta nel 1831 da Giuseppe Gabetti su incarico di Carlo Alberto di Savoia.

Il testo della Marcia Reale fu perso molto probabilmente durante la prima guerra mondiale; tuttavia, molti musicisti cercarono di riscriverlo, tentando di adattarlo alla musica. Probabilmente una delle più celebri versioni cantate fu quella eseguita dal Coro e Orchestra Sinfonica dell'Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche

Dal 1922 al 1943, ad ogni esecuzione pubblica della Marcia Reale, seguiva Giovinezza, l'inno ufficiale del Partito Nazionale Fascista.

 

 

Testo non ufficiale della Marcia Reale

 

Fanfara Reale

Evviva il Re! Evviva il Re! Evviva il Re!
Chinate, oh reggimenti, le Bandiere al nostro Re
la gloria e la fortuna dell'Italia con Lui è.
Chinate, oh reggimenti, le Bandiere al nostro Re
bei fanti di Savoia gridate Evviva il Re!

 

Marcia Reale

Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Le trombe liete squillano
Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Con esse i canti echeggiano
rullano i tamburi e le trombe squillano, squillano
cantici di gloria eleviamo con gioia e fervor
Tutta l'Italia spera in te
l'Italia crede in te
segnal di nostra stirpe e libertà, e libertà!

Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Le trombe liete squillano
Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Con esse i canti echeggiano
rullano i tamburi e le trombe squillano, squillano
cantici di gloria eleviamo con gioia e fervor
Tutta l'Italia spera in te
l'Italia crede in te
segnal di nostra stirpe e libertà, e libertà!


Quando i nemici agognino
i nostri campi floridi
dove gli eroi pugnarono
nella trascorsa età.
Finché duri l'amor di Patria fervido
finché regni la nostra civiltà.
L'Alpe d'Italia libera
del bel parlare angelico
piede d'odiato barbaro
giammai calpesterà
finché duri l'amor di Patria fervido
finché regni la nostra civiltà.
Come falange unanime
i figli della Patria
si copriran di gloria
gridando viva il Re.
Viva il Re.

 

La canzone del Piave

 

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La leggenda del Piave, conosciuta anche come la canzone del Piave, (inno nazionale italiano dal 1943 al 1946) è una delle più celebri canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo pseudonimo di E.A. Mario), il quale rinunciò ai diritti d'autore sulla canzone. Nel novembre del 1941 donò anche le prime cento medaglie d'oro ricevute, come riconoscimento per la canzone, dai comuni del Piave, da associazioni di combattenti, e da privati cittadini, come oro alla Patria insieme con le fedi sua e della moglie[1].

I fatti storici

 

I fatti storici che ispirarono l'autore risalgono al giugno del 1918 quando l'Austria-Ungheria decise di sferrare un grande attacco sul fronte del Piave per piegare definitivamente l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di Caporetto. La Landwehr (l'esercito imperiale austriaco) si avvicinò pertanto alle località venete delle Grave di Papadopoli e del Monte Montello, ma fu costretta ad arrestarsi a causa della piena del fiume. Ebbe così inizio la resistenza delle Forze armate del Regno d'Italia che costrinsero gli Austro-ungarici a ripiegare.

Tra il 2 e il 6 luglio del 1918, la 3a Armata del Regio Esercito Italiano occupò le zone tra il Piave vecchio ed il Piave nuovo. Durante lo svolgersi della battaglia, denominata battaglia del Solstizio, perirono 84.600 militari italiani e 149.000 militari austro-ungarici.

In occasione dell'offensiva finale italiana (Battaglia di Vittorio Veneto), avvenuta nell'ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri tra l'Austria-Ungheria e l'Italia. Dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfaldamento politico in corso dell'Impero, l'imperial-regio esercito si disgregò rapidamente e gli Italiani poterono tranquillamente sfondare le linee nemiche.

La composizione

 

La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918[2] subito dopo la battaglia del Solstizio, e ben presto venne fatta conoscere ai soldati dal cantante Enrico Demma (Raffaele Gattordo)[3]. L'inno contribuì a ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso: «La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!»[4]. Venne poi pubblicata da Giovanni Gaeta con lo pseudonimo di E. A. Mario solo alla fine del 1918, a guerra ormai ultimata.

Il testo e la musica, che fanno pensare ad una canzone patriottica con la funzione di incitare alla battaglia, hanno l'andamento colto e ricercato di altre canzoni che già avevano fatto conoscere Giovanni Gaeta nell'ambiente del cabaret; sue sono anche Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia luntana, Profumi e balocchi. La funzione che ebbe La leggenda del Piave nel primo dopoguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le sofferenze e i lutti che l'avevano caratterizzata.

Il testo

 

Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti:

  1. La marcia dei soldati verso il fronte (presentata nella canzone come una marcia a difesa delle frontiere italiane; tecnicamente però fu l'Italia ad aggredire l'impero asburgico)
  2. La ritirata di Caporetto
  3. La difesa del fronte sulle sponde del Piave
  4. L'attacco finale e la conseguente vittoria

Nella prima strofa il Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe per fare da barriera all'avanzata austriaca e ammonisce "Non passi lo straniero". Ma come racconta la seconda strofa, a causa della disfatta di Caporetto, il nemico cala fino al fiume e questo provoca sfollati, profughi da ogni parte. La terza strofa racconta del ritorno del nemico con il seguito di vendette di ogni guerra, e con il Piave che pronuncia il suo "no" all'avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso rosso dal sangue dei nemici. Nell'ultima, si immagina che una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti, tutti uccisi dagli austriaci.

Le varianti del testo

 

All'epoca della prima stesura di questo brano, si pensava che la responsabilità per la disfatta di Caporetto fosse da attribuire al tradimento di un reparto dell'esercito.[5]

Per questo motivo, al posto del verso "Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento" vi era la frase "Ma in una notte triste si parlò di tradimento".
In seguito, durante il regime fascista fu appurato che il reparto ritenuto responsabile era invece stato sterminato da un attacco con gas letali; si pensò così di eliminare dalla canzone il riferimento all'ipotizzato tradimento,[6] considerato non solo impreciso storicamente ma anche sconveniente per il regime.[7]

La melodia è orchestrata da bande musicali istituzionali e non, specialmente in occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica, in occasione del 25 aprile e del 4 novembre.

Questi versi, densi di amor patrio, e la sua solenne, seppur a tratti adulterata, rievocazione storica, fecero sì che da più parti si levasse la richiesta di adottarlo come inno nazionale, cosa che avvenne solo dal 1943 al 1946,[8] quando La Canzone del Piave divenne l'inno nazionale dello stato italiano.[9] La melodia fu poi sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli.

Nel 1961 il comune di Roma deliberò di denominare una strada Via Canzone del Piave nel quartiere Giuliano-Dalmata, nella cui toponomastica sono largamente rappresentati personaggi ed eventi della Prima Guerra Mondiale; la denominazione costituisce un caso rarissimo di toponimo urbano ispirato a un brano musicale.[10]

Solitamente è eseguita da bande e fanfare in occasione della posa delle corone ai monumenti ai caduti immediatamente dopo all'inno nazionale.

La canzone del Piave è stata riproposta come inno nazionale il 21 luglio del 2008 da Umberto Bossi[11].

 

- L'INNO NAZIONALE

Fratelli d'Italia

Dobbiamo alla città di Genova Il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli. Scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l'Austria.

L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani - e non alla Marcia Reale - il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese.

Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l'Inno di Mameli divenisse l'inno nazionale della Repubblica Italiana.

Il poeta

Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827 (figlio di Adele - o Adelaide - Zoagli, discendente di una delle più insigni famiglie aristocratiche genovesi, e di Giorgio, cagliaritano, comandante di una squadra della flotta del Regno di Sardegna). Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderisce al mazzinianesimo nel 1847, l'anno in cui partecipa attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme e compone Il Canto degli Italiani. D'ora in poi, la vita del poeta-soldato sarà dedicata interamente alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunge Milano insorta, per poi combattere gli Austriaci sul Mincio col grado di capitano dei bersaglieri.

Dopo l'armistizio Salasco, torna a Genova, collabora con Garibaldi e, in novembre, raggiunge Roma dove, il 9 febbraio 1849, viene proclamata la Repubblica. Nonostante la febbre, è sempre in prima linea nella difesa della città assediata dai Francesi: il 3 giugno è ferito alla gamba sinistra, che dovrà essere amputata per la sopraggiunta cancrena.

Muore d'infezione il 6 luglio, alle sette e mezza del mattino, a soli ventidue anni. Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.

il musicista

Michele Novaro nacque il 23 ottobre 1818 a Genova, dove studiò composizione e canto. Nel 1847 è a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano.

Convinto liberale, offrì alla causa dell'indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine.

Di indole modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l'Unità. Tornato a Genova, fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, alla quale avrebbe dedicato tutto il suo impegno.

Morì povero, il 21 ottobre 1885, e lo scorcio della sua vita fu segnato da difficoltà finanziarie e da problemi di salute. Per iniziativa dei suoi ex allievi, gli venne eretto un monumento funebre nel cimitero di Staglieno, dove oggi riposa vicino alla tomba di Mazzini. come nacque l'inno

La testimonianza più nota è quella resa, seppure molti anni più tardi, da Anton Giulio Barrili, patriota e poeta, amico e biografo di Mameli.

Siamo a Torino: "Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. Infatti, per mandarle d'accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sbocciati appunto in quell'anno per ogni terra d'Italia, da quello del Meucci, di Roma, musicato dal Magazzari - Del nuovo anno già l'alba primiera - al recentissimo del piemontese Bertoldi - Coll'azzurra coccarda sul petto - musicata dal Rossi.

In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: - To' gli disse; te lo manda Goffredo. - Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos'è; gli fan ressa d'attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo.

Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte.

Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia." 

Il testo dell'Inno nazionaleLa cultura di Mameli è classica e forte è il richiamo alla romanità. È di Scipione l'Africano, il vincitore di Zama, l'elmo che indossa l'Italia pronta alla guerra


Una bandiera e una speranza (speme) comuni per l'Italia, nel 1848 ancora divisa in sette StatIn questa strofa, Mameli ripercorre sette secoli di lotta contro il dominio straniero. Anzitutto,la battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda sconfisse Barbarossa. Poi, l'estrema difesa della Repubblica di Firenze, assediata dall'esercito imperiale di Carlo V nel 1530, di cui fu simbolo il capitano Francesco Ferrucci. Il 2 agosto, dieci giorni prima della capitolazione della città, egli sconfisse le truppe nemiche a Gavinana; ferito e catturato, viene finito da Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo straniero, al quale rivolge le parole d'infamia divenute celebri "Tu uccidi un uomo morto"


 

Ogni squilla significa "ogni campana". E la sera del 30 marzo 1282, tutte le campane chiamarono il popolo di Palermo all'insurrezione contro i Francesi di Carlo d'Angiò, i Vespri Siciliani.

Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò

La Vittoria si offre alla nuova Italia e a Roma, di cui la dea fu schiava per volere divino. La Patria chiama alle armi: la coorte, infatti, era la decima parte della legione romana


 

Mazziniano e repubblicano, Mameli traduce qui il disegno politico del creatore della Giovine Italia e della Giovine Europa. "Per Dio" è un francesismo, che vale come "attraverso Dio", "da Dio"



Sebbene non accertata storicamente, la figura di Balilla rappresenta il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese. Dopo cinque giorni di lotta, il 10 dicembre 1746 la città è finalmente libera dalle truppe austriache che l'avevano occupata e vessata per diversi mesi



 

L'Austria era in declino (le spade vendute sono le truppe mercenarie, deboli come giunchi) e Mameli lo sottolinea fortemente: questa strofa, infatti, fu in origine censurata dal governo piemontese. Insieme con la Russia (il cosacco), l'Austria aveva crudelmente smembrato la Polonia. Ma il sangue dei due popoli oppressi si fa veleno, che dilania il cuore della nera aquila d' Asburgo.

 

Inno del Regno di Sardegna

 

Anche se a  qualcuno  può sembrare strano, Gignese, fino al 1861, data  ufficiale del nuovo Regno d'Italia,

faceva parte a tutti gli effetti del Regno di Sardegna che, comprendeva appunto la Sardegna, il Piemonte,

la Liguria, la Savoia ed il Nizzardo. Ecco perchè alla fine aggiungo alla pagina degli Inni anche l'Inno del

Regno di Sardegna.

 

 

 
INNO SARDO
Hymnu Sardu Nationali

 

 

Refrain:
Conservet Deus su Re
Salvet su Regnu Sardu
Et gloria a s'istendardu
Concedat de' su Re.

1. De fidos et fort'homines
Si figios nos vantamus,
Bene nos provaramus
Figios ipsoro, o Re.

2. Semper in nois hat a essere
Sa fide immota e forte,
Ne in variare e' sorte
Hat a mudarsi, o Re.

3. Si da unu bonu figiu
Su babbu no est negadu
Ne has a essere abjuradu
Tue mae da nois, o Re.

4. Si figiu pîu sacrìficat
Totu a su babbu sou
Et totu omni sardu
Dispretiat pro su Re.

5. Qui manchet in nois s'animu
Qui languat su valore
Pro forza o pro terrore
No hapas suspetu, o Re.

6. Unu a omni chentu intrepidos
A ferru et a mitralia
In vallu et in muralia
Hamus andare, o Re.

7. Solu in sa morte tzedere
Soliat su Sardu antigu
Né vivu a s'innimigu
Ceder'happ'ego o Re.

8. De ti mustrare cuppidu
Sa fide sua, s'amore
Sas venas in ardore
Sentit su Sardu, o Re.

9. Indica un'adversariu
E horrenda da' su coro
Iscoppiàrat s'ira ipsoro
A unu tou cinnu, o Re.

10. Cumanda su chi piàgati
Si bene troppu duru
E nde sias tue seguru
Chi hat a esser factu, o Re.

11. Sa forza qui tant'atteros
Podesit superare
Facheràt operare
Unu tou cinnu , o Re.

12. Sa forza qui mirabile
Jà fuit a' su Romanu
E innante a' s'Africanu
Tue bideràs, o Re.

13. Sos fidos fortes homines
Abbaida tue cuntentu
Qui hant a essere in omni eventu
Quales jà fuint, o Re.
 

 

Quaderno della scuola elementare, di una bambina che lo custodiva gelosamente.
Classe terza elementare. Anno 1925
(immagine tratta dal sito: www.sardegnaminiere.it)

 

HYMNU SARDU

Gli autori: versi in sardo e in italiano di Vittorio Angius (Cagliari 1797-Torino 24 marzo 1862),
musica di Giovanni Gonella (Sassari 1804-1854).

 

Conservet Deus su Re/ Salvet su Regnu Sardu/ Et gloria a s'istendardu/ Concedat de su Re!

Qui manchet in nois s'animu/ Qui languat su valore,/ Pro fortza e pro terrore/ No Hapas suspectu, o Re.

Conservat Deus su Re....

Unu a omni chentu intrepidos/ A ferro et a mitraglia,/ In vallu e in muralia/ Hamus a andare, o Re.

Cunservat Deus su Re...

Solu in sa morte cedere/ Soliat su sardu antigu,/ Ne vivu a s'inimigu/ Cederapo ego, o Re.

Conservet Deus su Re...

De fides et fort'homines/ Se figios nos vantamus,/ Bene provaramus/ Figios ipsoro, o Re.

Conservet Deus su Re...

De ti mostrare cupidu/ Sa fide sua, s'amore,/ Sas svenas in ardore,/ Sentit su Sardu, o Re

Conservet Deus su Re...

Indica un adversariu,/ E horrenda dà su coro/ Scoppiarat s'ira ipsoro/ A unu tou cinnu, o Re.

Conservet Deus su Re...

Comanda su qui piagati,/ Si bene troppu duru,/ E nde sias tue seguru/ Qui hat a esser factu, o Re.

Conservet Deus su Re...

Sa forza qui mirabile/ Ia fuit à su romanu,/ E inante a s'africanu,/ Tue bideras, o Re.

Conservet Deus su Re...

Sa forza qui tant'atteros/ Podesit superare/ Facherat operare/ Unu tou cinno, o Re.

Conservet Deus su Re...

Sos fidos fortes homines/ Abbaida tue contentu,/ Qui hant a esse in omni eventu/ Quales ja fuint, o Re

Conservet Deus su Re...

 

TRADUZIONE

Iddio conservi il Re/ Salvi il REGNO SARDO/ E gloria allo stendardo/ Conceda del suo Re!

 

Che in noi languisca l'animo/ E infermesi il valore,/ Per forza e per terrore/ Non mai temere o Re.

Iddio conservi il Re...

Uno contro cento intrepidi/A spalle e a mitraglie,/ Su valli e su muraglie/ Noi correremo, o Re.

Iddio conservi il Re...

Solo in sua morte cedere/ Soleva il Sardo antico,/ Ne vivi all'inimico/ Noi cederemo, o Re.

Iddio conservi il Re...

Da fidi valent'uomini/ Se nati ci vantiamo,/ Ben proverem che siamo/ Noi loro figli, o Re.

Iddio conservi il Re...

Di mostrati cupidi/ La fede e il loro amore,/ Le vene in grande ardore/ Sentono i Sardi, o Re.

Iddio conservi il Re...

Che in noi languisca l'animo/ E infermesi il valore,/ Per forza e per terrore/ Non mai temere o Re.

Iddio conservi il Re...

Uno contro cento intrepidi/ A spalle e a mitraglie,/ Su valli e su muraglie/ Noi correremo, o Re.

Iddio conservi il Re...

Solo in sua morte cedere/ Soleva il Sardo antico,/ Ne vivi all'inimico/ Noi cederemo, o Re.

Iddio conservi il Re...

Da fidi valent'uomini/ Se nati ci vantiamo,/ Ben proverem che siamo/ Noi loro figli, o Re.

Iddio conservi il Re...

Di mostrati cupidi/ La fede e il loro amore,/ Le vene in grande ardore/ Sentono i Sardi, o Re.

Iddio conservi il Re...

Indica un avversario,/ E orrendo dal lor cuore/ Tonar s'udrà il furore/ Ad un tuo cenno, o Re.

Iddio conservi il Re...

Comanda ciò che piacciati/ Foss'anche troppo duro,/ Ad esser sicuro/ Che sarà fatto, o Re.

Iddio conservi il Re...

La forza che mirabile/ Sentirono i Romani,/ E prima gli africani/ Potrai vedere , o Re.

Iddio conservi il Re...

La forza che altri barbari/ Poteva già domare/ Saprà far operare/ Solo un tuo cenno, o Re.

Iddio conservi il Re...

I fidi e valent'uomini/ O vedi tu contento/ Che a te in qualunque evento/ Quai fu, saranno, o Re

 


in data 29 Settembre 2006 riceviamo e pubblichiamo

...La partitura orchestrale originale si trova nella Biblioteca Universitaria di Sassari, donata da Gavino Cugia-Pilo.

Nella versione per canto e pianoforte - con dedica bilingue di Giovani Gonella al "Consiglio Civico di Cagliari" - fu stampata dall'editore milanese Aromando (1848, copia nelle biblioteche universitarie di Cagliari e Sassari) e successivamente da Ricordi. Una splendida partitura corale bilingue è conservata nella Biblioteca del Conservatorio Statale di Musica "P. da Palestrina".

Quel 1843 riportato nello spartito della revisione di Pelucchi è  un errore di stampa (o di sbaglio), quel 3 è sicuramente un 8 ...


L'inno ufficiale del Regno Sardo era la Marcia Reale, mentre s' Hymnu sardu nazionale era l'inno dell'Italia monarchica, eseguito obbligatoriamente persino nelle accademie militari durante le manifestazioni ed esercitazioni e alla fine della messa (fino alla caduta della monarchia). Sotto il fascismo eseguito assieme alla Marcia Reale e a Giovinezza nelle manifestazioni ufficiali.

Adriano Vargiu

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in data 22 Dicembre 2006 riceviamo e pubblichiamo

In merito alla data di composizione dell'Inno Sardo Nazionale intendo significare che il testo fu scritto da Vittorio Angius in occasione della 3ª ed ultima visita di Carlo Alberto in Sardegna, compiuta il 13 aprile del 1843. L'Inno fu poi musicato da Giovanni Gonella ed eseguito per la prima volta al Teatro Civico di Cagliari il 18 febbraio del 1844 (domenica di Carnevale). La pubblicazione dello spartito bilingue dedicata al Consiglio Civico di Cagliari è avvenuta tra il febbraio e l'agosto del 1844. Infatti nell'articolo titolato INNO SARDO NAZIONALE dell'Indicatore Sardo del 24 agosto 1844, in cui fu riportata la versione integrale bilingue dell'Inno, ci si compiace del fatto .che tanto le parole quanto la musica dello stesso inno sieno uscite colle stampe di Torino, dedicate dal maestro Gonella al consiglio civico di Cagliari... Ritengo pertanto sia corretto datare la composizione al 1843 e la sua prima pubblicazione al 1844 per la Calcografia di G. Magrini Editore Piazza Carignano di Torino, come si dovrebbe leggere nel piè di pagina della copertina, da voi riprodotta, se non fosse stata rifilata male.

Gianfranco Manca

La bandiera e il simbolo dei Quattro Mori

La prima volta in cui il simbolo dei Quattro Mori comparve su un documento ufficiale, stando a quanto è conservato in archivi e musei, risale al 1281: si tratta di sigilli in piombo della cancelleria aragonese, apposti su testi nel periodo in cui era re Pietro III detto "il Grande".

Si ha ragione di credere che questo simbolo sia stato concesso alla nostra Isola soltanto nel 1379, dopo l’annessione del Regno di Aragona con Castiglia e della Sardegna alla Confederazione della Corona d’Aragona (Stammario di Gerle). Documenti risalenti al 1590 lo fanno apparire come stemma del Regno di Sardegna: un ovale con una croce rossa in campo bianco e le teste di quattro mori bendati in fronte. Col passare dei secoli, ha subìto qualche variazione ma, nella sostanza, è rimasto lo stesso.

Sulle origini si è molto discusso e ancora si discute. Alcuni studiosi ipotizzano che sia nato nel 1096, quando il re Pietro I d’Aragona vinse la battaglia di Alcoraz contro i Saraceni (popoli musulmani). Secondo una leggenda, durante la sanguinosa battaglia sarebbe apparso un cavaliere vestito di bianco e una croce rossa sul petto, che avrebbe messo in fuga i Saraceni terrorizzati: si sarebbe capito soltanto dopo che si trattava di San Giorgio, il quale avrebbe lasciato sul campo di battaglia le teste mozzate dei quattro re Saraceni sconfitti.

Nel Settecento, il simbolo mostrò i Quattro Mori con le bende calate sugli occhi, e così rimase sino a quando, con la legge regionale n° 10 del 15 Aprile 1999, si è stabilito che i Quattro Mori debbano avere la benda sulla fronte e siano voltanti a destra, e non più a sinistra.